Era il 2009. A Venezia si parlava molto dei casi di migranti nascosti nei tir provenienti dalla Grecia. Aveva fatto scalpore la storia del povero Zaher, 13 anni, morto nel 2008 proprio a Mestre sotto il camion a cui si era aggrappato per eludere la frontiera in cerca di una vita migliore lontano dalla guerra.
Allora ero una giovane giornalista piena di idealismo e speranza. Avevo scritto un paio di articoli sulla vicenda. La guardia di finanza mi aveva anche accompagnato alla dogana a vedere come effettuava i controlli di questi tir e dove si incastravano incredibilmente questi ragazzini. Delle storie pazzesche.
Nel 2009 insieme ai colleghi Carlo Mion e Attilio Bolzoni ero andata a Patrasso, in Grecia, a vedere le condizioni in cui vivevano questi migranti prima di arrivare da noi. Erano tutti giovanissimi, soli, per lo più afghani nei campi profughi allestiti a ridosso del porto, a pochi passi dal centro. Insieme ad alcune associazioni locali ci avevano accompagnato all’interno del loro tende fatiscenti, ci hanno mostrato i segni delle botte prese dalla polizia, ci hanno raccontato la guerra che hanno visto nelle loro case, ci hanno raccontato dei loro tentativi quotidiani di scavalcare i cancelli del porto per nascondersi sotto i camion pronti ad imbarcarsi nelle navi traghetto dirette in Italia. Li abbiamo visti con i nostri occhi riuscirsi e li abbiamo visti con i nostri occhi desistere per riprovarci il giorno dopo.
Sono passati più di 10 anni da allora e quelli stessi ragazzi, i loro fratelli o i loro vicini di casa, sono oggi confinati nei campi lungo la rotta balcanica. In mezzo alla neve.
No. Le botte, il freddo, la fame, i rischi di morte, non hanno interrotto quel flusso continuo di disperati. Nulla, a parte la pace nel mondo che sognano le miss universo, potrà mai fermarlo.
L’unica cosa che si potrebbe fare sarebbe gestirlo. Ma non è questo il mio mestiere. Io mi limito a raccontare.
Ricordo un frammento: noi stavamo partendo con il traghetto del ritorno, eravamo a bordo e salutavamo sul molo alcuni dei ragazzi che avevamo intervistato. Due di loro, molto ciarlieri, ci avevano seguito fin lì sperando chissà che potessimo farli salire con noi. Ma a differenza loro nelle nostre mani c’era un biglietto e un passaporto europeo.
Loro rimasero giù, dietro il cancello, noi con grande facilità superammo il controllo. Quello stesso controllo che loro per mesi cercavano disperatamente di eludere invano. Quasi mi sentivo in colpa del mio privilegio. “Non ho alcun merito di essere nata a Venezia. Così come loro non hanno alcuna colpa di non esserlo” pensavo.
Ricordo che mentre il traghetto si staccava dal molo, uno di loro che parlava italiano perché era già stato in Italia ma poi era stato rispedito indietro, mi chiamò per nome: “Francesca, racconta la nostra storia. Non dimenticarti di noi”.
Lo so che sembra la scena di un film ma è successo davvero. Lo giuro. E io quella storia l’ho raccontata e continuo a raccontarla ogni volta che ne ho l’occasione.
Perché in questo mondo ognuno deve fare la sua parte e decidere da che parte della storia stare.
Foto IPSIA BIH (giovani migranti nel campo di Lipa, Bosnia, gennaio 2021)