RESISTENZA vs RESILIENZA

Oggi si parlerà e scriverà molto di Venezia e dell’Acqua Granda. Brutto termine, peraltro, per definire quell’evento atmosferico eccezionale avvenuto nella notte del 12 novembre 2019.
Se ne parlerà e scriverà molto, giustamente, perchè oggi ricorre il primo anniversario da quell’evento drammatico e anche perchè da allora Venezia non è più stata la stessa.
Il turismo veneziano è stato duramente colpito da quell’avvenimento, ma ancor di più dalla sua narrazione mediatica, cioè dalla sua estrema drammatizzazione. Tanto che a distanza di mesi gli albergatori hanno dovuto mettere in piedi addirittura una campagna di sensibilizzazione, con tanto di press tour internazionale per smontare la psicosi che frenava le prenotazioni turistiche per paura che la città fosse ancora sott’acqua.

Poche settimane dopo sarebbe iniziata l’emergenza coronavirus.
E il resto è noto a tutti. Dalle prime chiusure alle prime proteste al lockdown generale e Venezia che torna ad essere protagonista dei notiziari di tutto il mondo con le sue acque cristalline, le calli deserte, Piazza San Marco desolata.
Poi gradualmente le prime riaperture, i primi weekend di turisti giornalieri dai dintorni, le proteste di chi aveva vissuto di turismo di massa fino a poco prima e che ora nonostante le riaperture si trova alla fame. Il Redentore… anzi no.
E infine l’estate, con qualche timida ripresa, alcuni turisti (europei) che tornano, la gente che rianima le calli, in modo più contenuto.
L’illusione che sia tutto superato raggiunge l’exploit con la prova generale dell’innalzamento del Mose.
Entusiasmo generalizzato. Appropriazione indebita di meriti. Tanta, tanta euforica superficialità.
E poi ancora una nuova marea di crisi. Altre restrizioni, altre chiusure. Alcune definitive. Piazza San Marco ancora più desolata.
La disperazione del mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo, oltre che dei commercianti, degli albergatori e degli operatori turistici.

La chiamano “resilienza”. In tanti, soprattutto in riferimento all’evento di un anno fa, all’acqua alta. La capacità di un corpo di affrontare un urto senza rompersi. O come si dice del sughero, la capacità di tornare alla forma originaria dopo una pressione, la sua flessibilità.
E quindi quando si parla di resilienza si auspica di saper affrontare il nuovo urto, la nuova ondata, la nuova marea eccezionale di crisi con elasticità, senza subire contraccolpi, senza incrinarsi, senza spezzarsi. Perchè tutto possa tornare come prima.

Ma la parola giusta non è “resilienza”.
Venezia non ha bisogno di “resilienza”, di compressione nella speranza che possa tornare come prima. Avrebbe bisogno di “resistenza”, di contrapposizione, di contrasto all’urto. Di qualcuno o qualcosa in grado di impedire la devastazione di una nuova marea di crisi.
Quindi di un nuovo modello non dell’elasticizzazione di quello precedente.
Non può esserci resilienza del nulla.
Può esserci solo resistenza, estrema, fino all’ultima pietra.
Fino all’ultimo veneziano. Fino all’ultima parola.
Perchè le parole sono importanti.
E a seconda che si usi “resilienza” o “resistenza” si capisce tutto.

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